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Genova - e alcune curiosita

Il termine "bancarotta" ha origini affascinanti e si lega strettamente alla Repubblica di Genova, in particolare alla zona di Sottoripa, antico centro mercantile e finanziario della città.


Nel Medioevo, i cambiavalute e i mercanti genovesi esercitavano le loro attività su banchi di legno (in latino bancus) collocati sotto i portici di Sottoripa. Quando uno di questi banchieri non era più in grado di onorare i propri debiti — in altre parole, falliva — si metteva in atto una punizione pubblica e simbolica: il banco veniva spezzato, rotto, davanti a tutti. Da qui il termine "banca rotta": bancus ruptus.


Ma l’aneddotica popolare genovese aggiunge un tocco più crudele e teatrale. Si racconta che il mercante fallito venisse costretto a sedersi con il culo nudo su una pietra rovente, sempre in pubblico, per essere umiliato e marchiato, a simbolo del disonore e dell’affronto fatto alla comunità mercantile. Questo gesto serviva sia da punizione esemplare, sia da deterrente.


Dunque, la "bancarotta" non era solo un evento finanziario: era un evento sociale e morale, che metteva in gioco il prestigio personale e la fiducia pubblica. Genova, potente e orgogliosa repubblica marinara, non ammetteva il fallimento come semplice sfortuna: lo considerava un peccato civile.


Questa combinazione di etimologia latina e folclore genovese ci mostra come il linguaggio economico europeo abbia radici profondamente culturali e locali.


La Banca di San Giorgio (Casa di San Giorgio) è uno dei primi esempi di istituto bancario pubblico al mondo, ed è strettamente legata alla storia della Repubblica di Genova. Fondata ufficialmente nel 1407, le sue radici affondano però già nel XIII secolo, come risposta a una crescente esigenza di gestire il debito pubblico e le finanze dello Stato.


Origini:


Nel corso del Duecento e Trecento, Genova si trovava spesso coinvolta in guerre — contro Pisa, Venezia, i Turchi — e per finanziare questi sforzi bellici lo Stato emetteva prestiti obbligatori ai cittadini, detti "luoghi", su cui lo Stato pagava interessi. Tuttavia, il continuo indebitamento metteva in crisi la gestione delle finanze pubbliche.


Per ristabilire l’ordine e garantire i creditori, si decise di creare un ente indipendente, la Casa delle Compere e dei Banchi di San Giorgio, che unificasse la riscossione dei tributi e l’amministrazione del debito. A differenza di un ministero, questa banca era autonoma dallo Stato, governata da rappresentanti dei creditori stessi.


Funzioni innovative:


Riscossione di imposte


Gestione di territori come garanzia del debito (es. Corsica, Caffa, Tabarca)


Prestiti e cambi valutari


Finanziamenti a monarchi europei (come il re di Spagna o il Duca di Milano)



È quindi considerata un prototipo di banca centrale mista, privata e pubblica allo stesso tempo.



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Aneddoti e curiosità:


1. Machiavelli la elogia: Niccolò Machiavelli, nel Principe, loda l'efficacia e l'indipendenza della Banca di San Giorgio, dicendo che essa governa meglio di molti Stati sovrani. Per lui è un esempio di come il potere economico possa superare l'autorità politica.


2. Cristoforo Colombo e la banca: Secondo alcune fonti, Cristoforo Colombo avrebbe avuto contatti con la Banca di San Giorgio e potrebbe aver ricevuto appoggi o conoscenze da parte di famiglie finanziariamente legate all’istituto, prima di partire per l’Atlantico.


3. Una banca con colonie: Un fatto sorprendente è che la Banca di San Giorgio amministrò territori, come la Corsica, Caffa in Crimea, Tabarca in Tunisia, con poteri quasi sovrani. I suoi funzionari erano come governatori coloniali. Era, di fatto, una "banca-stato".


4. Il palazzo di San Giorgio: Il suo quartier generale, il Palazzo San Giorgio, era un tempo prigione. Secondo la leggenda, Marco Polo vi fu detenuto nel 1298 e proprio lì dettò le sue memorie, Il Milione, a Rustichello da Pisa. Questo fa del palazzo il simbolo di un incrocio tra finanza, potere politico e avventura.



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In definitiva, la Banca di San Giorgio fu molto più di una banca: fu un'istituzione semisovrana, un modello di amministrazione finanziaria avanzata per l’epoca, e un laboratorio di modernità in una Genova mercantile e cosmopolita.


Nel tardo Medioevo e fino al Cinquecento, Genova, detta "la Superba", fu una delle potenze economiche e finanziarie più influenti d'Europa. Questo soprannome, attribuito già da Petrarca (“Vedrai una città regale, adagiata su un’alta collina, superba per uomini e per mura…”), non è casuale: Genova fu realmente una capitale del denaro e del commercio internazionale, rivaleggiante con Venezia, Pisa, Barcellona e, in parte, con le fiere delle Fiandre.


Ecco una panoramica del suo potere economico e finanziario nel periodo di massimo splendore, tra il XIII e il XVII secolo:



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1. Dominio sui mari e colonie


Genova costruì un impero commerciale marittimo esteso, grazie alla sua potente flotta e alla strategia di creare colonie e fondachi (empori fortificati) lungo le rotte del Mediterraneo:


Caffa in Crimea (porta del Mar Nero e snodo delle rotte orientali)


Chio, Samo, Rodi, Cipro (avamposti verso l’Oriente)


Tabarca in Tunisia (snodo del commercio africano)


Corsica, Sardegna e Sicilia (forte presenza politica e commerciale)



Queste colonie garantivano monopoli commerciali su spezie, tessuti, schiavi, grano e metalli.



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2. Finanza d’avanguardia: la "Wall Street" del Rinascimento


Genova sviluppò un sistema finanziario avanzatissimo per l’epoca:


La Banca di San Giorgio gestiva debito pubblico, colonie, e imposte.


I banchieri genovesi (i Lomellini, i Sauli, i Centurione, i Spinola, i Grimaldi) erano prestatori di ultima istanza per papi, imperatori, re di Francia e di Spagna.


Dopo la battaglia di Lepanto (1571), Genova divenne la banca della Spagna imperiale. I "signori del denaro" genovesi finanziavano i traffici d’oro e argento dalle Americhe in cambio di privilegi e interessi enormi.



Frase emblematica dell’epoca:


> “Il re di Spagna è potente perché deve tutto ai genovesi.”





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3. Competenze tecniche ed economia reale


Genova eccelleva anche nella costruzione navale (Arsenale del Molo), nella logistica portuale e nella manifattura di tessuti pregiati, carta e armamenti. Le compagnie mercantili genovesi (i cosiddetti officium mercatorum) erano esempi di capitalismo proto-moderno.



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4. Cultura del prestigio e potere simbolico


Le grandi famiglie genovesi investivano nel prestigio:


Palazzi dei Rolli (residenze nobiliari esibite al potere straniero)


Mecenatismo artistico (Rubens, Van Dyck, Piola)


Università, accademie, archivi, chiese sontuose



Genova non era solo una città ricca: era l’epicentro del potere finanziario europeo, una "città-mondo" capace di dettare le condizioni del credito internazionale.



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Conclusione


Genova dominò il Mediterraneo non solo con la forza navale, ma soprattutto con la superiorità finanziaria. Dove non arrivavano le armi, arrivavano i conti. La sua grandezza non fu solo nel ferro e nel sale, ma nel credere nel valore astratto del denaro e nel saperlo far fruttare attraverso reti globali e prestiti sovrani.


Una Superba davvero: non per arroganza, ma per la maestria con cui seppe fondersi con il potere stesso del capitale.


La Repubblica di Genova, per secoli potenza marittima e finanziaria del Mediterraneo, unì in modo profondo identità civica, religione e moneta, soprattutto nel legame simbolico con la Madonna, che divenne la patrona e protettrice ufficiale dello Stato.



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1. Genova “Repubblica della Madonna”


Nel 1637, in un atto solenne e senza precedenti, il Senato genovese decretò che la Repubblica avrebbe avuto come unica sovrana la Madonna, proclamandola Regina di Genova.


Questa decisione, di forte valore simbolico, nasceva in un contesto di minaccia esterna (Spagna, Francia, pirateria) e di crescente devozione mariana nel mondo cattolico post-tridentino. Il gesto fu politico e teologico: Genova, repubblica aristocratica, rifiutava monarchi terreni, ma si affidava a una figura celeste come garante di protezione e prosperità.


Il doge, da allora, divenne "capitano generale" al servizio della Madonna, non più un sovrano ma un suo vicario. Sulla carta, la Vergine Maria divenne regina costituzionale della Repubblica.



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2. La Madonna sulle monete: il “genovino”


Già molto prima del 1637, la figura della Madonna appariva sulle monete della Repubblica. Ma dopo la sua proclamazione a Regina, la simbologia mariana si intensificò.


Il "genovino" d’oro (conio già dal XIII secolo) recava spesso la croce e immagini della Madonna o del castello simbolo della città.


Il titolo “Ave Gratia Plena” e la corona mariana divennero elementi ricorrenti nelle iscrizioni monetarie e nei sigilli statali.


Le madonnine in argento, monete votive e commemorative, venivano coniate durante le processioni o le pestilenze, e distribuite come ex voto.




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3. Simbolismo e potere


La scelta della Madonna come regina aveva anche una funzione di coesione interna tra le famiglie nobili, divise da faide, e di legittimazione all'esterno: nessun sovrano straniero poteva vantare diritti su Genova, perché la città non era terra di uomini ma di Maria.


La Madonna divenne anche simbolo della potenza navale e finanziaria: si raccontava che proteggesse le flotte, benedicesse i traffici e "guardasse" dal campanile della cattedrale San Lorenzo ogni genovino che partiva per mare.



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4. Un caso unico in Europa


Genova fu l’unica repubblica europea a dichiararsi formalmente monarchia sotto la Vergine. Un caso che fonde mistica, diplomazia e repubblicanesimo aristocratico in un equilibrio raro.



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In sintesi


1637: la Madonna è proclamata Regina di Genova


Il doge diventa suo "servo e capitano"


Le monete esprimono questa devozione in forma numismatica


La Madonna diventa scudo politico e simbolo d’identità civica



Genova, la Superba, era sì una repubblica, ma al tempo stesso un regno teologico mariano, dove il potere celeste guidava quello terreno. Un’originale sintesi di fede, finanza e sovranità.




Immagina di camminare per i caruggi di Genova, tra muri di pietra antica e passaggi stretti dove la luce filtra come in una cattedrale laica. Ad ogni angolo, in alto o incastonata nel muro, ti osserva una piccola presenza silenziosa: un’edicola votiva, una nicchia con una Madonna, un santo, una lampada sempre accesa, qualche fiore secco o una conchiglia marina. Non è solo devozione: è memoria, arte e mare. È Genova.


Queste edicole, disseminate ovunque, parlano del cuore profondo del barocco genovese, dove la religione si fa spettacolo e intimità allo stesso tempo. Sono piccoli palcoscenici sacri in un teatro urbano, forme artistiche spontanee che raccontano la paura del mare, la gratitudine per un figlio tornato dalla Corsica, la speranza per un marito in partenza per Caffa. Ogni edicola è un ex voto collettivo, ma anche un gesto artistico. Questo intreccio tra arte, fede e vita quotidiana è ciò che rende il barocco genovese unico: uno stile che non è solo nei palazzi dei Rolli, ma anche nei muri delle case popolari.


Ed è qui che entra in scena Peter Paul Rubens, il grande fiammingo che, a inizio Seicento, venne a Genova e rimase folgorato dalla potenza visiva della città. Ammirò i suoi palazzi, sì, ma fu colpito soprattutto dal modo in cui l’arte e la fede permeavano ogni angolo urbano. Rubens capì che a Genova la spiritualità non era nascosta nei templi, ma esplodeva nei vicoli, e portò con sé quell’ispirazione nelle sue opere e nei suoi studi sull’architettura barocca. Pubblicò addirittura un libro sui palazzi genovesi, lodando la teatralità dell’arte sacra ligure, così vicina alla vita e alla fantasia.


Il barocco genovese, nutrito da pittori come Castiglione, Piola, Fiasella, prende corpo anche nelle edicole votive. Le stesse curve, i putti, le fiamme, le dorature, che trovi nelle grandi chiese, sono lì, in miniatura, nelle vie. È come se Genova avesse disseminato il suo splendore nelle briciole, per non lasciarne nessuna parte priva di bellezza.


Tutto questo è possibile perché Genova è città di mare, e il mare chiama la fantasia. I santi qui sono compagni di viaggio, guardiani di bordo, stellari capitani che proteggono chi affronta l’invisibile. Sant'Antonio di Padova è spesso rappresentato con una nave, la Madonna della Guardia veglia sulle rotte. Ecco che la devozione si mescola al coraggio, e l’arte alla superstizione, in un impasto poetico tutto italiano.


Questa fusione di fede popolare, raffinatezza artistica e immaginazione visionaria è uno specchio fedele dell’Italia. Un Paese dove l’arte non nasce solo nei saloni reali, ma anche nel gesto di una madre che accende una candela per il figlio navigante. Dove la bellezza non è mai separata dalla vita quotidiana. Dove la fantasia non è evasione, ma forma suprema di realismo.


Genova, la Superba, è la miniatura dell’Italia: sospesa tra sacro e profano, tra mare e pietra, tra Rubens e un vecchio marinaio che disegna conchiglie sotto una nicchia votiva. È una città che crea e crede, che prega e dipinge, che unisce il cuore alla mano, e fa della fantasia la sua vera dote sovrana.


E come le sue edicole, l’Italia continua a essere

un’offerta spontanea alla bellezza, fragile, luminosa, resistente.



Citiamo i versi di Eugenio Montale nella poesia Portovenere, in apertura del suo "Diario del '71 e del '72", come chiave d’accesso al nostro discorso sul mare, sull’intimità e sul coraggio. Scrive il poeta:


> «...questa chiesa di San Pietro che s'aggrappa

alla roccia come una nera vespa...

*e intorno l'infinito delle acque,

l'abisso che trasale sotto il sole d’estate».




Montale non descrive solo un luogo: evoca un sentimento, un abisso interiore che si riflette nel mare, un mistero che è insieme bellezza e vertigine. Il mare come specchio dell’inconscio, come confine mobile tra il visibile e l’invisibile, tra la storia e il sogno.


Ed è da questo abisso che emerge la figura possente di Andrea Doria, l’ammiraglio, il condottiero, ma anche l’uomo che ha navigato nell’ignoto, nella paura e nella decisione. Nato nel 1466 a Oneglia, Andrea Doria fu molto più di un militare: fu un architetto di equilibri politici, un signore del mare capace di tenere testa a imperatori e sultani, mantenendo Genova libera e potente in un tempo di burrasche geopolitiche.


Con la sua flotta respinse i pirati barbareschi, vinse battaglie decisive contro i Turchi, e persino tracciò nuove rotte politiche legandosi all’Imperatore Carlo V. Ma la sua più grande impresa fu respingere la Spagna dall'interno, riconsegnando alla Repubblica genovese l'autonomia, senza mai incoronarsi re. Andrea Doria non dominava il mare — lo rispettava, come chi sa che ogni onda è specchio di forze più grandi.


Proprio come nel verso di Montale, l’abisso che trasale non è solo sotto la chiglia delle navi, ma dentro l’anima del marinaio. Navigare — ieri come oggi — significa affrontare l’ignoto fuori e dentro di sé. Andrea Doria, con la sua prodezza, incarna l’archetipo dell’uomo che attraversa l’inconscio, che sfida le tempeste esterne e interne, e che emerge con uno sguardo nuovo sul mondo.


In Italia, questa connessione tra mare e profondità interiore è parte del nostro stesso modo di essere. Il mare è frontiera, ma anche origine. Lì si formano i miti, si partoriscono le città, si ritrovano i sogni. Doria, con la spada in pugno e lo sguardo oltre l’orizzonte, non naviga solo per conquistare, ma per conoscere — come un Ulisse cristiano e rinascimentale.


Il mare ligure, aspro, verticale, come quello di Portovenere, ci ricorda che ogni viaggio è anche un ritorno. Ritorno a quella parte nascosta di noi, al nostro inconscio, che ci muove come correnti silenziose sotto la superficie. E in quel ritorno, forse, troviamo il senso stesso dell’arte, della storia, del coraggio.


Montale ci lascia sull’orlo della scogliera, Doria ci invita a salpare. Entrambi ci sussurrano, da sponde diverse del tempo, che solo chi ascolta il mare può conoscere se stesso.


Parola: Camogli


Etimologia e analisi etimologica (doppia ipotesi):



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1. Casa delle mogli


Origine proposta: dal genovese Cà de mògge


Genovese: cà = casa; de = delle; mògge = mogli


Significato: "case delle mogli", con riferimento storico secondo cui i marinai camogliesi partivano per lunghi viaggi e le mogli rimanevano a casa, gestendo il paese.


Nota culturale: questa interpretazione è popolare e affascinante, spesso riportata in chiave romantica e leggendaria, ma non supportata da documentazione linguistica diretta.




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2. Case a mucchi (agglomerato di case)


Origine proposta: dal genovese Cà a muggi o Cammuggi


Genovese: cà = casa; a = in, a; muggi (da muggiu) = mucchi, ammassi


Significato: “case a mucchi” o “agglomerato di case”, in riferimento alla struttura urbanistica del borgo, con le case costruite fitte e verticali sulla costa.


Sostegno linguistico: questa etimologia è considerata più plausibile dagli studiosi, coerente con l'aspetto fisico del borgo e con dinamiche linguistiche del ligure.




Ed ora un aneddoto per vivere Camogli come un luogo dove.. ritornare...


Camogli: il fuoco che unisce mare e terra


Nel cuore del Golfo Paradiso, Camogli sorge come un mosaico di case strette, colorate e verticali, raccolte “a mucchi” — cà a muggi, secondo la voce antica del genovese, che avrebbe dato il nome al borgo. Questo impasto urbano, così compatto e vivo, si stringe attorno a due sentinelle secolari: il castello della Dragonara e la chiesa di Santa Maria Assunta.


Ma pochi oggi ricordano che, un tempo, il castello della Dragonara non era sulla terraferma. Era un piccolo isolotto di roccia, proteso sul mare, separato dal promontorio da una stretta insenatura. Era la prima linea di difesa della comunità: un avamposto contro i pirati saraceni, costruito nel Medioevo per sorvegliare le acque e l’ingresso del porto.


La costruzione della chiesa: un ponte tra terra e mare


Nel XVII secolo, quando la comunità di Camogli crebbe e il culto mariano divenne centrale, si decise di costruire una nuova chiesa parrocchiale, dedicata a Santa Maria Assunta. Per farlo, fu necessario colmare l’istmo che separava l’isolotto del castello dalla costa, creando così un’unica piattaforma sacro-difensiva, su cui si ergevano fianco a fianco la spada e la preghiera.


In quel gesto urbanistico si cela un significato profondo: l’unione tra il potere della fede e quello delle armi, tra la protezione del corpo e quella dell’anima. Camogli non sarebbe più stata solo difesa: sarebbe diventata comunità compatta, saldata attorno al sacro e alla memoria.


Il fuoco rituale: memoria di un miracolo


Ogni anno, ancora oggi, durante la festa di Stella Maris o dell’Assunta, nella notte tra il 14 e il 15 agosto, si rinnova una tradizione che riecheggia un’antica leggenda: sul sagrato della chiesa vengono accesi falò che illuminano la baia, in segno di devozione alla Madonna e di protezione per i marinai in mare.


Ma secondo la tradizione popolare, questo fuoco non è solo celebrazione: è memoria di quella notte miracolosa in cui, nel Quattrocento, una tempesta sembrava voler inghiottire Camogli. Mentre le donne pregavano nella chiesa, una luce fortissima si levò dalla torre del castello: non era un incendio, ma un fuoco sacro, un bagliore che rischiarò il mare e calmò le onde. I pescatori rientrarono, salvi. Quel fuoco — dicono — unì il cielo e il mare, la paura e la speranza.


Oggi, il castello e la chiesa non sono più divisi dal mare: l’isola è diventata terra, e la luce che arde ogni anno in agosto è il ricordo vivo di quel legame, fuso nella pietra e nel fuoco, che ancora tiene unito il cuore di Camogli.


Camogli, San Fruttuoso e il Cristo degli Abissi: la fede scolpita nel mare


Appena lasciato il porto di Camogli, una breve navigazione lungo la costa frastagliata del Monte di Portofino conduce a un luogo dove il tempo sembra essersi fermato: San Fruttuoso di Capodimonte. Una piccola insenatura incastonata tra le rocce e i lecci, raggiungibile solo via mare o attraverso sentieri impervi, che custodisce una basilica romanica costruita direttamente sul mare.


Ma la sua storia affonda le radici molto più in là. La leggenda narra che il vescovo San Fruttuoso di Tarragona, martire cristiano, apparve in sogno a cinque monaci, indicando proprio questa baia come luogo della sua sepoltura. Fu così che nacque il monastero benedettino, poi trasformato in basilica e, nel tempo, ampliato dalla potente famiglia Doria, che ne fece mausoleo e luogo di culto.


Il complesso architettonico è unico: un chiostro, una cripta, una cupola moresca e un’arca bianca che si affaccia direttamente sulle onde, come se la fede non avesse voluto scendere a compromessi con la terra, ma si fosse fatta mare. Qui, le onde battono le fondamenta della preghiera.


Il Cristo degli Abissi: la fede sommersa


Poco più a largo, a 17 metri di profondità, riposa il Cristo degli Abissi, una statua in bronzo posta sul fondale nel 1954 da Duilio Marcante in memoria di Dario Gonzatti, pioniere della subacquea, morto in un’immersione proprio lì. Le braccia spalancate verso la superficie sembrano accogliere, benedire, pregare.


Il Cristo non è solo una scultura: è la trasfigurazione sommersa della fede, visibile solo a chi si immerge, come a dire che la spiritualità più autentica richiede discesa, fatica, immersione. Le sue mani tese sembrano toccare il cielo dal fondo del mare, come se la salvezza venisse dal basso, dal buio, dalla profondità.


Un filo invisibile tra Camogli, San Fruttuoso e gli abissi


Così, tra Camogli e San Fruttuoso, passando per il Cristo degli Abissi, si disegna una trinità ligure del sacro:


Camogli, con la chiesa di Santa Maria Assunta e il fuoco rituale,


San Fruttuoso, con la basilica costruita tra le onde,


Il Cristo degli Abissi, immagine sommersa della fede che resta, anche quando è nascosta.



Questi luoghi raccontano, insieme, una spiritualità profondamente marina, che non sta nelle grandi cattedrali, ma tra scogli, silenzi e immersioni. È la fede dei pescatori, dei monaci, dei subacquei: una fede che non domina il mare, ma vi si affida.



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